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Gli Internati militari italiani in Germania 1943 – 1945
di Enrico Iozzelli
L’armistizio dell’8 settembre 1943 ha rappresentato uno spartiacque per la storia italiana: pochi altri avvenimenti nel corso del novecento furono così carichi di significati e conseguenze. A partire da quella data due eserciti stranieri tornarono a scontrarsi sul territorio della nazione, che perse unità e autonomia decisionale, sostenne un cruento passaggio del fronte e subì l’occupazione nazista, violenta e immediata.
I vertici tedeschi, infatti, avevano preventivato da tempo una possibile defezione italiana e appena ebbero conferma dei loro sospetti attuarono contromisure tempestive per invadere la penisola, prenderne il controllo e sfruttarne uomini e mezzi in modo da proseguire la guerra da soli. Subito dopo l’annuncio dell’armistizio le truppe della Wehrmacht si recarono in punti strategici individuati in precedenza e nel breve volgere di pochi giorni ebbero la meglio su di un esercito che contava approssimativamente due milioni e mezzo di effettivi, spesso senza incontrare la benché minima opposizione.
Sul versante opposto si registrò invece una completa impreparazione e le disposizioni diramate alle divisioni sabaude si rivelarono confuse e tardive. Senza un efficace coordinamento, circa un milione di soldati cadde in mano nemica. Riuscirono a salvarsi coloro che si dichiararono disposti a combattere al fianco dei nazisti, i militi di stanza nel meridione passato sotto il controllo angloamericano e chi ebbe la possibilità di allontanarsi dalle caserme prima dell’arrivo del nemico, grazie ai consigli di alcuni ufficiali lungimiranti o per fortunate intuizioni personali. I fuggitivi trovarono spesso una sponda vitale nella popolazione civile, che offrì rifugio, abiti e cibo. Molti sbandati andarono a dare sostanza alla guerra partigiana che scopriva in quei giorni un primo slancio. Nella confusione generale, infine, si registrarono alcune isolate reazioni armate, che furono rapidamente represse con violenza come sull’Isola d’Elba o portarono a vere e proprie stragi come a Cefalonia.
I soldati italiani messi in stato di fermo vennero rapidamente inviati in centri di raccolta allestiti sul territorio per organizzarne l’invio nel nord e nell’est Europa. Trecentomila prigionieri rimasero in questi campi di transito (Durchgangslager) solo poche ore: alcuni presero accordi per rientrare nelle file nazifasciste, molti altri fuggirono subito dopo la cattura o nei giorni successivi, sfruttando la scarsa sorveglianza degli ex alleati che non avevano forze sufficienti a mantenere uno stretto controllo su un numero così ampio di detenuti. I restanti settecentomila furono trasferiti con viaggi interminabili in campi per prigionieri di guerra gestiti dalla Wehrmacht, distribuiti in 17 distretti militari (Wehrkries) che coprivano tutto il territorio controllato dal Reich, suddivisi tra lager per ufficiali (Offizierslager, Offlag) e per la truppa (Stammlager, Stalag): si tratta del più consistente gruppo di italiani trattenuti con la forza in Germania durante la guerra. Oltre quarantamila morirono prima di poter riabbracciare le proprie famiglie per le dure condizioni di prigionia a cui furono sottoposti.
Gli uomini catturati dalle truppe naziste furono inizialmente considerati prigionieri di guerra a tutti gli effetti, ma il 20 settembre 1943 Hitler impose che fossero classificati Italienische Militär-Internierte (Internati militari italiani, Imi). Sul piano giuridico la categoria di internato militare identifica i soldati catturati durane la guerra in un paese neutrale e non era certo applicabile ai prigionieri italiani, ma venne comunque adottata dai nazisti in seguito a considerazioni pratiche e politiche, legate all’occupazione della penisola e alla nascita di un nuovo stato fascista nel nord Italia. Inoltre, il cambiamento di status fu ispirato dalla volontà di punire il tradimento dell’8 settembre, eludere i controlli della Croce rossa internazionale e soprattutto dalla necessità di aggirare le limitazioni imposte dalla Convenzione di Ginevra, che vieta l’utilizzo di prigionieri di guerra nell’industria bellica, settore nel quale fin dall’inizio delle ostilità in Germania era esploso un crescente fabbisogno di manodopera. Per agevolarne il controllo e lo sfruttamento gli internati furono immatricolati con estrema cura per i dettagli. Ogni prigioniero venne fotografato e poi identificato in modo meticoloso, registrando dati anagrafici, impronte digitali, professione, residenza, lingue parlate, malattie ed eventuali vaccinazioni, luogo di cattura, grado militare e reggimento di provenienza. Successivamente fu consegnata a tutti una piastrina dove era indicato il numero identificativo e la sigla dello Stalag di arrivo.
Gli Imi divennero vittime dell’ideologia razzista e xenofoba propria dei totalitarismi del novecento che in parte nei mesi precedenti avevano contribuito a diffondere. Considerati appartenenti a una razza inferiore e inaffidabile, furono relegati ai gradini più bassi della società, appena al sopra di ebrei e sovietici. Le condizioni di internamento furono comunque molto eterogenee, influenzate principalmente dal campo di detenzione e dal personale che lo reggeva. Pur non subendo quasi mai un trattamento assimilabile a quello dei deportati nei campi gestiti dalle Ss, la loro situazione si rivelò fin dall’arrivo estremamente dura. Furono alloggiati in baracche sovraffollate, sporche e fredde, nelle quali ricevevano razioni di cibo inadeguate in termini di quantità e qualità. L’alimentazione variava molto a seconda della zona di prigionia, ma non fu mai abbondante. Pane nero, carote, rape e patate, a volte accompagnati da margarina, erano le portate principali del menù quotidiano. Nei campi l’igiene era scarsa, rare le occasioni di lavarsi o fare una doccia. La perenne sporcizia portò allo scoppio di epidemie di tifo e tubercolosi, favorite dall’invasione di cimici e pidocchi che imperversavano ovunque. Inoltre, i prigionieri mantennero per mesi le divise estive con le quali erano stati catturati, inadatte al clima tedesco, che favorirono il diffondersi delle malattie. Gli stivali militari sarebbero stati un bene prezioso, ma in pochi riuscirono a conservarli, perdendoli in seguito alle perquisizioni subite all’arrivo o per i furti. Reclusi e controllati a vista, gli internati vivevano giornate tutte uguali, lunghe ed opprimenti, intervallate soltanto da interminabili appelli mattutini e serali all’aperto, durante i quali venivano allineati e contati ripetutamente con qualsiasi condizione atmosferica. Bastava un piccolo ritardo, una distrazione o una reazione inadeguata per essere puniti.
Dopo un primo periodo di angoscia, che in alcuni casi durò più di un mese, i nazisti con la complicità delle autorità fasciste offrirono a tutti gli internati la possibilità di tornare liberi entrando a far parte delle Ss o del nuovo esercito di Salò. La proposta era certamente allettante e mise i detenuti in difficoltà. Le informazioni a disposizione per compiere una scelta ponderata erano poche e le sofferenze patite fecero vacillare la volontà di molti, soprattutto tra i più giovani che non erano supportati da una salda coscienza politica. La proposta venne ripetuta più volte nel corso dei mesi successivi, ma solo circa centomila soldati accettarono il compromesso, mentre oltre seicentomila opposero un netto rifiuto, determinati a continuare volontariamente la propria reclusione pur di non aderire ancora al progetto nazifascista. Tanti decisero con consapevolezza, ma le motivazioni della rinuncia non furono unanimi e non tutte trovarono fondamento in un convinto antifascismo.
A seguito del rifiuto la posizione degli Imi subì una nuova svolta. I nazisti ritennero gli italiani più utili come lavoratori che come combattenti e decisero di inserirli nell’apparato produttivo del Reich, ipotesi valutata già prima dell’arresto. Mentre gli ufficiali furono lasciati negli Offlag, con la speranza di un loro ritorno alle armi, la truppa venne decisamente indirizzata verso lo sfruttamento. Gli Stalag furono utilizzati come centri amministrativi e di smistamento, dai quali distaccare prigionieri in vari settori dell’industria tedesca, soprattutto quella bellica, costretta dai pesanti bombardamenti a decentrare impianti e macchinari su un vasto territorio. Solo pochi soldati continuarono la loro prigionia nei lager di arrivo, la maggior parte fu trasferita in decine di campi esterni e commando di lavoro (Arbeitskommando). Per far fronte alla grande richiesta di manodopera furono inoltre creati campi secondari o ausiliari (Zweiglager), amministrati dai campi principali, che ne gestirono le risorse economiche e umane. I prigionieri italiani furono sfruttati presso fattorie, fabbriche, miniere e ogni altro tipo di attività produttiva; diventarono operai, braccianti, manovali, garzoni, dovettero costruire trincee, rimuovere macerie, ripristinare gli snodi viari resi inagibili dai bombardamenti. Lavorarono nei centri abitati e nelle zone periferiche, impiegati in aziende controllate direttamente dalla Wehrmacht, ma anche in tante ditte private.
L’assegnazione dei soldati italiani alle singole imprese venne gestita attraverso una “procedura di valutazione del fabbisogno” in base a una scala di priorità che privilegiava l’industria di guerra. La richiesta di prigionieri venne regolata attraverso appositi moduli di colore rosso (Rotzettel), con indicazioni dettagliate su professione, formazione, qualifiche e sistemazione negli alloggi, che avrebbe dovuto essere a carico delle società. In molti casi il piano di ripartizione degli Imi fu lento e lacunoso, condizionato da ritardi organizzativi e difficoltà nei trasporti. A volte, invece, la distribuzione fu facilitata dalle amministrazioni pubbliche locali, che si adoperarono per convogliare il maggior numero possibile di lavoratori a bassissimo costo verso le ditte presenti sul proprio territorio. Chiunque poteva farne richiesta, anche piccole attività: fornai, macellai, sarti, calzolai, fabbri, falegnami, imbianchini, muratori, sellai, idraulici, elettricisti. Furono in molti a fare uso di un’offerta economicamente vantaggiosa e priva di rischi. D’altra parte l’affare era ottimo, l’indennità da pagare esigua e nel caso di una diminuzione degli ordini i prigionieri di guerra sarebbero stati trasferiti altrove dagli uffici di collocamento pubblici, senza ulteriori esborsi.
La frammentazione nell’impiego degli Imi rese ancora più eterogenee le loro condizioni di vita. Per quanto riguarda gli alloggi, ad esempio, in seguito al trasferimento i soldati italiani furono stipati in ogni genere di edificio in grado di garantirne il controllo. Molti tra i campi secondari in precedenza erano stati caserme, ma anche scuole, vecchi granai, depositi, edifici pubblici dismessi, fattorie, sale per banchetti in locande, magazzini. In linea generale è comunque possibile affermare che l’inserimento nel sistema produttivo garantì maggiori possibilità di sopravvivenza. Naturalmente, il tipo di lavoro a cui i prigionieri furono costretti influì in modo determinante sulla loro sorte. Chi ebbe la relativa fortuna di essere destinato ad attività agricole o legate ala filiera alimentare, riuscì spesso a integrare le magre razioni di cibo ricevute nei lager e instaurare un rapporto non ostile con i civili tedeschi o con altri prigionieri. Diametralmente opposta la condizione di coloro che furono assegnati ai settori estrattivo o siderurgico, dove si affrontavano turni massacranti. Alcuni luoghi più di altri sono ancora oggi sinonimo di sofferenza e morte, come il bunker Valentin nei pressi di Brema o le gallerie di Khala, in Turingia.
Nell’estate del 1944 gli Imi furono oggetto di un nuovo cambiamento di status. I nazisti avevano bisogno di una maggiore flessibilità nell’impiego della manodopera per far fronte alle crescenti difficoltà economiche e decisero di trasformare tutti gli Internati militati in lavoratori civili. In cambio i prigionieri avrebbero dovuto firmare un impegno a restare nei territori soggetti al controllo tedesco. Oltre la metà dei soldati italiani declinò la proposta. A monte di questo secondo rifiuto si annidava una profonda diffidenza verso nazisti e fascisti, visti ormai entrambi come nemici: nel corso della prigionia tra gli internati si fece strada un antifascismo sempre più consapevole. I nazisti, comunque, portarono avanti il loro progetto e il 4 settembre 1944 trasformarono di autorità gli Imi in lavoratori civili. La loro gestione venne progressivamente decentrata verso gli enti preposti al controllo dei lavoratori stranieri, diretti da aziende private o dal Fronte del lavoro tedesco (Deutsche Arbeitsfront-DAF). Questo fu un momento cruciale nella vita di molti: più diminuiva il controllo dello stato, più ogni individuo decideva secondo coscienza. La sorte dei prigionieri italiani dipese quindi maggiormente dai dirigenti delle società in cui erano impiegati e dai capi dei gruppi di lavoro. In linea di massima gli Imi non furono più considerati solo degli schiavi e ottennero un trattamento migliore. Viceversa, a causa delle difficoltà sempre maggiori imposte dalla guerra al popolo tedesco, per alcuni gruppi di prigionieri gli ultimi mesi di prigionia furono peggiori dei precedenti. L’imminente sconfitta acuì l’odio delle truppe germaniche verso i vecchi alleati, portando a vere e proprie stragi compiute perfino quando ormai non c’erano più dubbi sulle sorti del conflitto. Tristemente noto il massacro compiuto nei giorni della liberazione a Treuenbrietzen, a nord di Berlino.
Le sofferenze dei soldati italiani non terminarono neanche dopo la fine delle ostilità. Di fatto, il rientro a casa degli Imi fu estremamente complicato e per la mancanza di un efficace coordinamento da parte dello stato italiano migliaia di uomini si trovarono costretti ad organizzarsi da soli per tornare a casa. Perfino una volta giunti in patria gli ex Imi non trovarono qualcuno che li accogliesse e alle volte quando si presentarono ai distretti militari di appartenenza furono addirittura costretti a rimettersi la divisa per concludere il periodo di leva. In pochi presero sul serio la loro tragedia, interpretata nel migliore dei casi come sfortunato corollario della guerra, letta più spesso come evidente prova di vigliaccheria. Soltanto nella seconda metà degli anni ottanta, a quasi quaranta anni dai fatti, si è aperto un serio percorso storico e politico che ha contribuito a non farne naufragare la memoria.
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