La Resistenza a Prato

di Andrea Mazzoni

tratto da: Dizionario della resistenza. Luoghi, formazioni, protagonisti, Vol II, pp.123-125, Torino, Einaudi

Centro operaio, Prato partecipa alla lotta antifascista e alla resistenza con l’organizzazione di Gap e Sap in città, con la costituzione di robuste formazioni di combattenti sui monti della Val di Bisenzio, con l’attività svolta nelle fabbriche (vere e proprie “università dell’antifascismo”) da singoli oppositori del regime o da cellule operaie clandestine. D’altra parte le forti tradizioni del movimento dei lavoratori nel Pratese (intensissimo era stato il biennio rosso) offrono un fertile terreno per una diffusa avversione alla dittatura. Già alla caduta del fascismo, il 25 luglio del ’43, è dalle fabbriche – investite da scioperi spontanei – che parte la parola d’ordine della fine della guerra, mentre in città e nelle frazioni vengono distrutti dalla popolazione i simboli del regime. Le astensioni dal lavoro si protraggono per alcuni giorni, prima di essere represse dalle forze dell’ordine con decine di arresti.

Dopo l’8 settembre e l’arrivo delle truppe tedesche, l’ostilità verso il nazifascismo si concretizza nello sforzo di organizzazione della lotta armata. E’ una vicina località del Pistoiese – Catena di Quarrata – a funzionare inizialmente da punto di riferimento per i combattenti antifascisti di Prato. Ma tocca poi ai rilievi a nord della città divenire i luoghi preminenti dell’attività partigiana. Già sul finire del’43, provenendo dal Monte Morello, si porta sulla Calvana la squadra comandata da Lanciotto Ballerini di Campi Bisenzio, caporal maggiore dell’esercito datosi alla macchia dopo l’8 settembre. L’intenzione del Ballerini è di raggiungere nell’Alto Pistoiese la formazione partigiana di Manrico Ducceschi “Pippo”, anch’egli collegato al Partito d’azione. Il giorno successivo al Natale del ’43 Ballerini e i suoi uomini fanno tappa a Valibona, prima di iniziare la marcia che dovrebbe portarli a unirsi alla I brigata Rosselli.

Il progetto non può essere condotto a compimento poiché nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1944 alcune centinaia di uomini – militi della Gnr e del battaglione Muti – suddivisi in tre colonne, che avanzano da Prato, Vaiano e Calenzano, nelle primissime ore del giorno circondano il cascinale dove i combattenti antifascisti sono nascosti.
Nel furioso scontro Lanciotto Ballerini e due suoi uomini perdono la vita. All’ipotesi di unire al gruppo di Ballerini una squadra di partigiani pratesi ha pensato Carlo Ferri, comunista della Briglia, in Val Bisenzio. Dopo i fatti di Valibona, egli continua l’opera di organizzazione di un gruppo di combattenti fino alla costituzione nel febbraio, ai Faggi di Iavello, della Orlando Storai (dal nome di un antifascista pratese fucilato a Firenze, alle Cascine, in una rappresaglia). Dopo alcuni scontri alla Briglia e a Migliana coi nazifascisti la Storai è inviata a operare sul Falterona, compiendo azioni importanti a Fontebuona e a Dicomano, ma i vasti rastrellamenti tedeschi dell’aprile ’44 portano allo scioglimento della squadra e al ritorno dei suoi effettivi nel Pratese. Qui, intanto, scongiurato il trasferimento al Nord dell’industria tessile locale, il 4 marzo e giorni successivi ha avuto luogo lo sciopero che – grazie a una capillare organizzazione, rafforzata da picchetti di partigiani sulle strade di accesso in città – ha coinvolto la grande maggioranza degli operai di Prato e degli stabilimenti della Val Bisenzio. All’agitazione, in una Prato che il 7 marzo conosce un duro bombardamento, segue una retata che colpisce scioperanti, oppositori, semplici cittadini, cosicché un gran numero di pratesi – quasi tutti poi scomparsi – vengono deportati nei campi di concentramento.

Intanto in città crescono gli episodi della lotta clandestina, guidata dal Cln ospitato nel convento delle monache di San Niccolò. Sempre più numerose si fanno le azioni di sabotaggio, come quella sulla tratta ferroviaria Prato-Bologna della Direttissima. Ma il più celebre di questi fatti si verifica a Carmignano – ai piedi del Montalbano, a sud di Prato – dove opera un gruppo di giovani partigiani guidati da Bogardo Buricchi, già artefici di un clamoroso blitz su una torre campanaria dello stesso paese per innalzarvi, il 1° maggio, la bandiera rossa, dopo che a marzo gli stessi hanno dato alle fiamme gli uffici comunali in cui si conservavano i registri degli ammassi agricoli. Nella notte dell’ 11 giugno la squadra di patrioti fa saltare in aria otto vagoni carichi di esplosivo del vicino polverificio Nobel, in sosta sui binari presso la stazione di Carmignano. Nella deflagrazione muoiono anche quattro componenti della formazione, tra cui Bogardo e suo fratello.

Proprio al nome di Bogardo Buricchi viene intitolata la brigata partigiana che in quei giorni, ai Faggi di Iavello, si è andata costituendo. La Buricchi, che usufruisce dell’apporto materiale e logistico delle popolazioni contadine della zona oltre che dei contatti e rifornimenti costanti dalla città, giunge a contare circa duecento uomini e compie azioni di sabotaggio, scontri a fuoco coi nazifascismi, il salvataggio di civili da rappresaglie.
Alla vigilia della liberazione di Prato, mentre le squadre di città entrano in azione per assumere il controllo delle periferie e del centro, la brigata, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, si mette in marcia per partecipare alle operazioni, ma la sua discesa – di cui imprudentemente è corsa voce – viene intercettata dai tedeschi in località Pacciana provocando lo sbandamento dei partigiani. Ventinove di essi, dopo la cattura, vengono impiccati nel paese di Figline, mentre gli alleati sono ormai prossimi a entrare in città. A sera, il Cln insedia nel palazzo civico la nuova giunta comunale guidata da Dino Saccenti.

a.m.

6 settembre 1944: l'eccidio di Figline e la liberazione di Prato

di Camilla Brunelli

Un’unità della Wehrmacht in ritirata, con precisione la 334ma Divisione di Fanteria dell’esercito tedesco comandata dal Maggiore di complemento Karl Laqua, che aveva combattuto in Lazio, in Abruzzo, in Umbria e in Toscana, ritirandosi lungo la Val di Chiana e il Pratomagno a fine agosto del 1944, fu trasferita nell’area di Prato e da qui riprese la marcia all’indietro verso l’Emilia.

Nell’ambito della cosiddetta “lotta alle bande”, forte anche delle direttive vincolanti emanate per tutte le forze tedesche di stanza in Italia dal feldmaresciallo Kesselring che comprendevano la cosiddetta “clausola dell’impunità”, in base alla quale fu fornita esplicitamente piena copertura giuridica a qualsiasi eccesso compiuto da ufficiali subalterni durante le azioni contro i partigiani, il comandante di questa “normalissima” unità dell’esercito germanico (non delle famigerate divisioni SS!) ordinò, forse dopo un processo sommario fatto al comando tedesco che si trovava a Villa Nocchi a Figline di Prato, l’impiccagione di 30 partigiani catturati dopo un conflitto a fuoco avvenuto nella zona di Pacciana.
I partigiani facevano parte della Brigata Bogardo Buricchi costituita da ca. 250 uomini, tra cui moltissimi giovani, che si trovavano in montagna ai Faggi di Javello e che erano scesi a valle nella notte tra il 5 ed il 6 settembre per partecipare alla liberazione di Prato. Firenze era già libera da quasi un mese, gli alleati erano alle porte, la guerra in questa area volgeva finalmente al termine… Non del tutto chiare a tutt’oggi sono le circostanze che portarono la formazione partigiana alla decisione di scendere in città con l’esito molto probabile di scontrarsi con i tedeschi ancora presenti in zona, numericamente superiori e molto bene armati.
Si parlò di una guida che non si era presentata, di un agguato in piena regola e del fatto che i soldati tedeschi conoscessero i movimenti dei partigiani…. Ecco ciò che risulta da un rapporto dei militari tedeschi trovato nell’Archivio Militare di Friburgo:
6.9.44 Nelle prime ore del mattino è stata scoperta una banda bene armata, forte di 150 uomini presso Figline di Prato. Nel corso dello scontro a fuoco sono stati abbattuti 40 banditi e catturati 35 prigionieri (tra i quali 7 russi) oltre ad 1 mitragliatrice pesante, 1 leggera, 1 mortaio e numerose armi leggere. Non possiamo prendere per buone queste indicazioni poiché spesso i numeri del “bottino” venivano esagerati. Sul numero esatto e sui nomi degli uccisi, e anche sulle modalità  delle uccisioni (alcuni perirono durante lo scontro a fuoco, altri furono fucilati a Figline, altri ancora, la maggioranza, impiccati sotto l’arco in Via Maggio tra cui anche chi era ferito o già morto, uno o forse due riuscirono a fuggire), le ricostruzioni da parte italiana presentano leggere divergenze. Resta il fatto, incontrovertibile, che decine di giovani vite dedicate alla Resistenza contro il terrore nazifascista furono spezzate il giorno stesso della Liberazione della città.

Vediamo quindi come l’eccidio dei 29 giovani impiccati e le singole uccisioni di civili di quei primi giorni di settembre avvennero in gran parte nell’ambito di operazioni militari antipartigiane e furono precedute da scontri armati, con perdite anche da parte tedesca che non vengono però menzionate nei rapporti.
Si trattò, per l’eccidio di Figline, di un evento esemplare nell’ambito della “lotta alle bande” volto alla deterrenza anche se ormai tardiva ma soprattutto espressione di una conduzione bellica spietata e sintomo di rabbia per la guerra ormai perduta, che caratterizzò, da parte dei nazifascisti, anche altrove ma soprattutto in Toscana il passaggio del fronte, con un numero altissimo di vittime anche civili, di uomini, donne, bambini, anziani, orrendamente trucidati.
Per Prato, Figline resta luogo caro alla memoria: ai ragazzi italiani, toscani ma anche russi (prigionieri dei tedeschi poi unitisi ai partigiani) che a Figline dettero la vita per la libertà, la Città dedica ogni anno da allora una fiaccolata nel giorno che tragicamente ha visto l’eccidio ma anche la tanto agognata liberazione: il 6 settembre del 1944.

Probabilmente a metà ottobre dello stesso anno il Generale Clark, comandante supremo delle forze alleate in Italia, venne in visita a Prato, dove, conversando con alcuni cittadini, fu informato dei crimini di guerra qui commessi alcune settimana prima dalle truppe tedesche.
Due o tre giorni più tardi, quattro agenti americani dell’FBI iniziarono le indagini ascoltando Don Milton Nesi, parroco della Chiesa di S. Bartolomeo a Coiano, il quale rilascì una testimonianza sui fatti ai quali aveva assistito. Seguirono in loco inchieste e accertamenti da parte del Comando Militare Alleato di Firenze. Il 15 Novembre l’inchiesta fu considerata conclusa e passata in triplice copia al comando del teatro di guerra del Mediterraneo per ulteriori azioni.
Un supplemento di indagine fu svolto dagli inglesi nell’aprile e nel giugno del 1945. Il 5 Dicembre 1946 il procuratore militare americano inviò l’intero incartamento alle autorità italiane.

Nel gennaio del 1960, a Roma, il fascicolo con l’inchiesta sui fatti di Figline di Prato (dopo 14 anni dalla presa in consegna da parte degli uffici italiani!), finì, insieme ad altri 694 fascicoli relativi a stragi ed eccidi compiuti dai nazifascisti in Italia, dietro le ante del cosiddetto “armadio della vergogna”, riaperto dopo ben 34 anni di occultamento nel maggio del 1994 e trasmesso alla Procura Militare competente.
Nel 2003, a 59 anni dai fatti, il fascicolo venne ripreso in mano dal Procuratore Militare di La Spezia Marco De Paolis e nello stesso anno a settembre, su invito del Comune di Prato, lo storico Carlo Gentile riferì, al Museo della Deportazione di Figline, dei suoi studi negli archivi tedeschi che portarono alla luce i responsabili dell’impiccagione dei 29 partigiani di Figline di Prato. Nel settembre del 2005, il Procuratore Marco De Paolis venne di persona a Figline per parlare dei risultati dell’ulteriore inchiesta da lui condotta e della susseguente archiviazione del fascicolo, avvenuta nel gennaio dello stesso anno, per presunta morte dell’imputato accusato del reato di violenza con omicidio e strage.

Per ricordare gli eventi e i sacrifici legati alla lotta di Liberazione e alla Deportazione di molti suoi cittadini nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, avvenuta prevalentemente in seguito alla sciopero generale del marzo 1944, il Comune di Prato ha realizzato, proprio a Figline, Il Museo della Deportazione ed il Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza.